SETTE BLOG PER UN AUTORE: "SUSANNA TRIPPA"

Ospite di oggi per la rubrica Sette Blog per un Autore è Susanna Trippa.


INTERVISTA AL PERSONAGGIO


1) Chi è Susanna? Raccontaci qualcosa di te

Mi chiamo Susanna Trippa e, trattandosi di un romanzo autobiografico, sono la protagonista oltre che l’autore del libro. Sono nata a Bologna, dove sono rimasta fino ai venticinque anni. Di quel periodo della mia vita ho scritto nel mio romanzo Come cambia lo sguardo – Gli inganni del Sessantotto. 

Anni Cinquanta: quasi un dopoguerra. Gli inverni freddi con i mucchi di neve alti ai lati delle vie, i giorni che si succedevano con l’essenziale… non certo con tutto il superfluo di adesso, che stordisce. Le poche cose della mia infanzia, che però contavano tanto. E davvero a me pareva di avere tanto, anche se è niente a paragone di quanto hanno ora i bambini. Ti dicevano: “Fanne conto!”. E noi ne facevamo conto. Le elementari, i giochi, l’amica del cuore, i primi libri, i primi film, la villeggiatura. Poi arrivarono gli anni Sessanta e il boom economico. E insieme a quello, la mia adolescenza. Tutto quanto stordiva come le bollicine dello champagne, a cui non si era certo abituati. Né io né i miei genitori sapevamo come prendere tutti quei cambiamenti; e così penso accadde a tanti altri.

Divario generazionale unito a uno stravolgimento epocale della società. 

Più tardi e ancora di più, il Sessantotto, appena uscita dal liceo, e l’autunno caldo degli operai e il Movimento e le manifestazioni, ed eskimo e sciarpe rosse ad invadere i portici della zona universitaria.

I dubbi politici, le sofferenze d’amore. La scoperta dell’Arte, attraverso gli occhi e le parole di un insegnante meraviglioso. I viaggi… l’Oriente. E poi gli anni di piombo, gli anni bui. Piazza Maggiore, a Bologna, guardata come in un cannocchiale all’incontrario, mentre abbandonavo lei e gli sfattoni a calciar lattine ossessivamente e sempre a chiedere: «Hai cento lire?». 

A Bergamo infine, con il moroso di allora – marito per tanti anni a venire – sarebbe iniziata la stagione del lavoro, addirittura due in breve tempo, e dei figli.

Insomma, era arrivata per me l’epoca della vita in cui si produce, in cui molto ci si radica nella materia, perché ci vuole anche questo.

2) Cosa ne pensi della tua storia? Nei limiti dello spoiler, sei contento di quello che ti capita nel romanzo? 

Nel romanzo è descritta la mia vita che, con le sue gioie ma anche con i suoi dolori, mi è cara. Mi ha portato fin qua, e quindi va bene così. Non risponderò però come il “venditore di almanacchi” del grande Leopardi. Sì, con quel poco di sicurezza in più che ho adesso, avrei potuto agire diversamente in certi momenti, però non ha molto senso guardare al passato in questi termini, no?

3) Hai degli hobby di cui il tuo autore parla nel libro?

Soprattutto emozionarmi per qualcosa direi… attraverso la lettura, l’arte, i film, la giustizia sociale… l’amore.

4) Che personaggio sei? Un protagonista amato sin da subito o no?

Sì, mi è stato detto che da subito si prova simpatia per quella bambina, che poi crescerà circondata da tante emozioni e contraddizioni anche. 

5) Pensi che qualche lato del tuo carattere possa appartenere al tuo autore?

Ah… ah… assolutamente sì.

6) Tre aggettivi che ti descrivono.

Malinconica, emozionata, idealista.

7) Parlaci della città dove è ambientata la tua storia.

Bologna, la città dove sono nata e vissuta fino a venticinque anni.

Bologna è una ben strana città dove per anni hanno convissuto, al cassero di Porta Saragozza, l’Arcigay e la folla che si raduna a maggio quando scende la Madonna. Oltre la piazza e lo snodo del viale, il monumentale Arco Bonaccorsi dà il la al porticato che, come un grosso vermone, s’arrampica strisciante lungo la collina fino alla chiesa di San Luca. Immagino un pomeriggio d’inverno, freddo e nebbioso come poteva essere tanti anni fa a Bologna…………………………………………………

C’era anche di bello, in quel periodo, la scoperta solitaria di una città – la mia – che mi pareva di vedere per la prima volta. Bologna – quella che va da piazza Maggiore, dove ancora si vedeva al mattino qualche vecchio con la capparella, fino alle strade e stradette della zona universitaria – era davvero la «Bologna per me provinciale Parigi minore» di Francesco Guccini. Dalla via Emilia, dove abitavo io, fino al centro storico era come fare un viaggio perché l’atmosfera che si respirava, anche spostandosi di così poco, era diversa. Andavo alla libreria Feltrinelli, in piazza Ravegnana; uscivo… alzavo gli occhi… le due Torri mi guardavano benevole. Mi addentravo nel silenzio di quello ch’era stato il quartiere ebraico: contemplavo le facciate storte, le travi di legno. Più in là, oltre il Conservatorio e piazza Rossini, dalle parti di via Acri dove c’era la segreteria, camminavo adagio sotto la copertura bassa dei portici. Ai muri scrostati stavano appoggiate le biciclette, e il rosso e il giallo dominavano.

8) Che rapporto hai con gli altri personaggi del romanzo? Ti va di presentarceli?

Qualche descrizione sui personaggi principali del romanzo tratta dal libro: 

Mia nonna: La nonna era una donna d’altri tempi, di quelle che avevano passato due guerre mondiali e tante notti negli ospedali d’allora, accanto al letto di questo o quel parente con il colera o la spagnola. Non capivo quando, da bambina, m’insegnavano a pelare le patate e lei indicava alla mamma che toglievo troppa polpa farinosa sotto la buccia. Veniva da una vita ben diversa da quella che avevo io! Però, in quei momenti, le faceva poco caso anche la mamma, che non aveva mai voluto parlare in dialetto e rifiutava ogni segno di ristrettezza. Dicono che ognuno di noi sia anche il nome che gli hanno dato quand’è nato; che questo nome fa proprio parte della nostra personalità, se poi l’abbiamo accettato. Allora credo che quel nome della nonna – Pasqua… Pasquina – abbia contribuito a fare di lei quello che era. «Contento come una Pasqua!», si dice. Così era per la nonna.

Mia mamma: Andavamo dagli Orsini certe domeniche e io me ne stavo sul bordo dell’erba, proprio come mio padre ch’era cittadino fino al midollo, mentre la mamma respirava forte e poi esclamava: «Che buon odore di campagna!». Estasiata, rievocava le estati di quand’era ragazzina e andava là in villeggiatura. Per prima cosa buttava via le scarpe a sentir l’erba sotto i piedi, mentre gli altri le dicevano: «Fedora, canta!». E lei non si faceva pregare, si metteva a cantare di tutto – come l’avrei poi sentita tante volte in casa all’improvviso – tutto quello che nell’inverno cittadino aveva ascoltato «alla rivista», o anche solo per strada, dai garzoni che, a piedi, in bicicletta o con quei tricicli di allora, portavano il pane, e intanto cantavano a squarciagola. Mia mamma era nata nel 1915 e penso che allora non avessero ancora la radio in casa; le canzonette le imparava così. E poi c’erano i suoi racconti di quand’erano sfollati, sempre dagli Orsini, che pareva fosse stata un’avventura romantica nella natura, più che una guerra davvero. Quand’ero così piccola, lei era davvero la mia salvatrice; solo con lei mi sentivo sicura e a mio agio.

Mio padre: Un pomeriggio di quelli andai con mio padre al luna park, che allora era alla Montagnola, una specie di Pincio bolognese. Ricordo noi due sull’autoscontro, e poi sull’aeroplanino che si alzava; il brivido di scendere all’improvviso, se colpiti, e di sparare poi su quello davanti, inquadrando attraverso il mirino. Un raro momento di noi due insieme e da soli… Il babbo si gustava ogni momento di spiaggia e di sole, anche se erano pochi per lui in quegli anni perché lavorava tanto. Ricordo che a tavola, in pensione, toglieva l’orologio e poi guardava sorridendo quel biancore che spiccava sul braccio abbronzato. Riccione era il mio Paese dei balocchi… le aspettative per la serata erano palpabili durante tutta la giornata in spiaggia. Alla quattordicenne ch’ero allora sarebbe bastato poco, ma poi arrivava la fatidica domanda di mio padre: ci sono ragazzi? Era come un teorema matematico: se la mia risposta era affermativa, la sua era sempre no. Semplice da imparare.

Mio fratello: Avrò avuto un anno e mio fratello nove; bello e sorridente, mi tiene in bilico su una spalla; io ho la vestina corta e una testolina incorniciata da pochi riccioletti neri, lui ha una perfetta scriminatura laterale che dà il via a un ciuffo malandrino. Cosa c’è ancora nel cassettino dei primissimi ricordi? Un cartoncino di un azzurro sbiadito, e incollati su quello i provini scattati nello studio fotografico Villani. Io a tre anni, ancora paffuta e sorridente, poso da sola; e poi con mio fratello di undici, in un duetto che era la nostra realtà di allora: lui affettuoso e protettivo, io adorante e civetta. Sì, anche civetta, perché ero innamorata di quel mio fratellone che chiamavo Dado. In quegli anni, se pensavo al futuro, immaginavo che io e lui saremmo vissuti insieme nella casetta dei sette nani. Da vera fidanzata in erba, cercavo di mostrare qualche punta di potere anch’io e facevo ridere i miei quando lo minacciavo esclamando: «Se fai lo sciocco, quando sei grande non ti sposo più!».

L’amica del cuore: La prima volta che la vidi è conservata nella mia memoria in una breve serie di fotogrammi. Lei, che non ha ancora quattro anni, è in braccio alla sua mamma nel riquadro della porta d’entrata, e sta piagnucolando. La sua mamma, che per tanti anni avrei poi chiamato zia Titina, chiede alla mia se può lasciarla un momento da noi per scendere a prendere il pane. Scambio di saluti e il battente si richiude alle spalle di questo scricciolo di bambina, finalmente più piccola di me, che io, imitando la sbruffoneria di mio fratello adolescente, tratto sul primo momento con una certa condiscendenza. Ma dalle lacrime a qualche sorriso incerto Valentina fa presto a passare e io, abbandonato il mio atteggiamento da quattro soldi, dimentico in fretta che sono più grande di lei. Da quel giorno fummo inseparabili. Giocavamo per interi pomeriggi, dispiaciute di lasciarci quando le nostre mamme c’interrompevano per la cena; negli occhi, salda come la roccia, la promessa di ritrovarci il giorno dopo, appena le mamme avrebbero potuto accompagnarci però, per quella rampa di scale, ché fortunatamente ci divideva solo un piano del palazzo. Nell’attesa, ci guardavamo da un balcone all’altro, sedute sugli sgabelletti con la bambola in braccio, e nell’aria andavano le nostre parole.

9) La tua storia avrà un seguito?

Certamente sì. Si parlerà di me in un nuovo romanzo autobiografico, non ancora pubblicato, che seguirà le vicende della protagonista a Bergamo e provincia, dopo l’addio a Bologna. Quello che le accadrà sarà sempre più collegato agli animali, che assumeranno un posto molto importante nella sua vita, da cui il titolo Gli animali guidano i nostri cuori.

10) Cosa pensano di te i lettori nelle loro recensioni?

Trovano simpatica la bambina, e poi s’immedesimano nelle vicende dell’adolescente e poi della giovane che sono stata. Sono interessati a conoscere il periodo storico attraversato dalle vicende del libro. I più vecchi ricordano, confrontano con il proprio vissuto e s’immedesimano; i più giovani ne hanno sentito parlare da racconti di genitori o nonni e amano confrontare la vita dei giovani di quegli anni con la loro presente.

11) C’è un messaggio all’interno del romanzo che secondo te il tuo autore vuole trasmettere ai lettori?

Sì, il mio autore vuole lanciare il messaggio che è stato sbagliato buttare tutto di quell’Italia in cui ha vissuto infanzia e giovinezza dagli anni Cinquanta ai Settanta, è come gettare il bambino con l’acqua sporca. Cosa ci abbiamo guadagnato? si chiede il mio autore. Ci ritroviamo, dagli ideali del Sessantotto, a vivere in un mondo ultra globalizzato, relativistico al massimo, dove Dio è del tutto assente. Questo non va bene, come già ci ammoniva papa Benedetto XVI appena scomparso. Occorre divenire sempre più consapevoli, riflette ancora il mio autore, per riconoscere le trappole che il grande potere globale pone sul nostro cammino. Solo la consapevolezza potrà portare al trionfo della Verità. Scrive lo scrittore psicoterapeuta Claudio Risé: «Ciò che l’Italia produce è uno Stile nel suo senso più elevato, un altro modo di vita rispetto alla società dei consumi standardizzati di massa, la tradizione del “fare bene” che paga anche dal punto di vista economico ma inquieta l’Europa. Un modo che, dalle nostre parti, è di casa da sempre: la ricerca del Bello e del Buono, il sapere di una certa Artigianalità che implica connessione tra cuore e mente. Questa storia inizia con gli Etruschi e diventa favolosa con il Rinascimento» («La Verità», 27 ottobre 2018). Deluso dal Maggio francese, il filosofo inglese Roger Scruton si spostò presto su posizioni conservatrici: «È facile distruggere le cose buone, ma non è facile crearle. Le cose buone sono quelle che ci arrivano sotto forma di patrimonio collettivo: la pace, la libertà, la legge, la civiltà, il senso civico, la sicurezza della proprietà e della vita familiare. Tutte queste cose buone oggi sono messe in pericolo dalle burocrazie transnazionali» (R. Scruton, Essere conservatore, trad. it. D’Ettoris Editori, Crotone 2015). Per paradosso, penso che i conservatori siano i veri rivoluzionari di oggi. 

12) Tre buoni motivi per leggere la tua storia.

1) Sono un personaggio simpatico. 2) Le vicende narrate tengono avvinta l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima riga. 3) Si può imparare dal passato a vivere meglio il presente.